A distanza o in presenza?

15 maggio 2022

di ELIZABETH GREEN


Il vangelo non va vissuto dal sofà ma nel mondo faticoso delle relazioni, radicato in aree geografiche ben precise, sporcandosi le mani con la polvere della terra, piantando e coltivando giardini, abbracciandosi gli uni gli altri e assumendo le nostre responsabilità in un mondo di tensioni e difficoltà

1 Nel principio Dio creò i cieli e la terra.2 La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque.
3 Dio disse: «Sia luce!» E luce fu.

26 Poi Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbiano dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». 27 Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.

4 Queste sono le origini dei cieli e della terra quando furono creati.
Nel giorno che Dio il SIGNORE fece la terra e i cieli, 5 non c’era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna. Nessuna erba della campagna era ancora spuntata, perché Dio il SIGNORE non aveva fatto piovere sulla terra, e non c’era alcun uomo per coltivare il suolo; 6 ma un vapore saliva dalla terra e bagnava tutta la superficie del suolo.
7 Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un’anima vivente.

Gen 1, 1-3. 26-27; Gen 2, 4-7

Negli ultimi due anni abbiamo esplorato – come gruppo studio biblico della chiesa – l’AT. Abbiamo passeggiato in lungo e in largo per le sue pagine cercando delle chiavi per aprire le porte a contenuti lontani da noi.  Lo abbiamo fatto perché senza l’AT non è possibile comprendere la storia di Gesù. I libri che compongono le scritture ebraiche – abbiamo scoperto – sono molto diversi gli uni dagli altri. Non solo, ma esprimono anche idee diverse e talvolta contradditorie che dialogano tra di loro.  Le scritture non parlano solo a noi ma parlano anche tra di loro.

         I due brani che abbiamo letto sono un esempio perfetto di questo dialogo. Due racconti delle origini, due racconti della creazione posti all’inizio delle nostre Bibbie, l’uno accanto all’altro, il secondo diverso dal primo. Il primo è diviso in sette giorni che danno il ritmo al racconto, pian piano Dio dispiega la sua opera creatrice a partire dalla luce e dalla separazione della luce dalle tenebre: fu sera e fu mattina: primo giorno. Poi separa le acque dalla terra dove sorgono le piante, gli animali e poi alla fine Dio prende una decisione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza. Dio creò l’uomo a sua immagine: lo creò a immagine di Dio”. Il settimo giorno, poi, Dio “compì l’opera che aveva fatta e si riposò”.

         Al secondo capitolo troviamo una versione diversa della stessa faccenda. Anche qui si parte da una realtà deserta “non c’era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna” ma, a differenza del primo racconto, la prima cosa che Dio fece fu “formare l’uomo dalla polvere della terra”. Solo in seguito pianterà il giardino, creerà gli animali e entrerà in scena la differenza sessuale. Il secondo racconto è molto diverso dal primo, non abbiamo un insieme strutturato in modo solenne, quasi liturgico ma una serie di episodi messi insieme per formare un racconto. Siamo, dunque, davanti a due prospettive diverse della creazione, che si fondono nel v. 4 del capitolo 2. La prima prospettiva guarda dall’alto e consiste in una serie di dichiarazioni da parti di Dio “Dio disse, Dio chiamò”. Il secondo racconto, invece, parte dal basso, parte dalla terra e dal vapore che ci saliva e proseguirà mettendo in evidenza le contraddizioni insite nell’esistenza umana.

         La differenza principale tra queste due prospettive, però, sta nella modalità della creazione.  “I cieli furono fatti dalla parola del Signore”, dice il salmo 33, 6; “Per fede comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla parola di Dio”, dice la lettera agli Ebrei.

         Nel secondo capitolo, invece, abbiamo a che fare con un Dio del tutto diverso. Questo Dio non sta nell’alto dei cieli a declamare, a dichiarare ma, come dice più in là nello stesso racconto, “cammina nel giardino nel fare della sera”. È un Dio che sta in basso e si sporca le mani. Prende la polvere della terra resa fangosa dal vapore e forma un modellino dell’umano nelle cui narici soffierà poi un alito vitale. Dall’inizio del racconto, dunque, viene ricordato che l’essere umano “è polvere e in polvere tornerai” (3,19). Non è difficile scorgere dietro questi racconti due diverse immagini di Dio. La prima immagina Dio come un qualcuno che emana ordini e decreti dall’alto, un monarca, un generale. È il punto di vista espresso dal centurione che si reca da Gesù “Anche io sono un uomo sottoposto a autorità altrui, e ho sotto di me dei soldati; e dico a uno “va” ed egli va; a un altro: “Vieni ed egli viene; e al mio servo: “Fa questo ed egli lo fa”. Possiamo dire che rispecchia uno dei desideri fondamentali dell’umano incidere nel reale senza appartenerci pienamente, cambiare il mondo con le idee e la forza delle parole.

         Nel secondo racconto, invece, troviamo un Dio totalmente diverso, immaginato come un artigiano. L’artigiano che usa le arti ovvero le mani per creare, piantare un giardino o lavorare la terra, tessere le stoffe o modellare il vasellame. Il profeta Geremia s’ispira alla stessa idea quando dice “Quello che l’argilla è in mano al vasaio, voi lo siete in mano mia, casa d’Israele”. Queste due diverse immagini di Dio appartengono a mondi sociali diversi, la prima a una classe abituata al comando rimanendo a distanza, la seconda abituata a fabbricare con le mani rimanendo con i piedi per terra. Non è difficile comprendere ciò che ci dicono gli studiosi, ovvero che il secondo racconto rispecchia una visione più primitiva della creazione, una fiaba da raccontare intorno al falò mentre il primo racconto, molto più sofisticato nel contenuto e nella forma è una produzione tardiva, frutto di una classe intellettuale avanzata.

         In altre parole, il racconto posto all’inizio della Bibbia è la versione più recente della creazione mentre al capitolo due troviamo la versione più antica. La domanda ora diventa: perché si è posta la versione più recente prima della versione più antica? Non sarebbe stato più logico partire dalla versione più antica e poi progredire a quella più recente? Oppure scegliere tra le due versioni conservandone una sola? E qui, bisogna riconoscere il genio delle scritture ebraiche che abbiamo scoperto, ossia la capacità di tenere l’una accanto all’altra due tradizioni diverse, persino opposte. La Bibbia che noi leggiamo non è costretta all’interno di una logica ferrea ma contiene intuizioni diverse frutto di sensibilità, epoche, classi sociali, diversi tra di loro.

         Ed è proprio questa che rende così affascinante la loro lettura. Che cosa hanno a che fare con noi dei testi così antichi? Hanno qualcosa da insegnarci? Penso di sì. La differenza fondamentale tra i due racconti – abbiamo visto – sta nella modalità di creazione, nel primo racconto Dio crea tramite la parola. Per chi, come il protestantesimo pone la parola al centro del culto è un’idea importante. “La fede viene da ciò che si ascolta e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo”, scrive l’apostolo Paolo, e per noi predicatori, professori, scrittori, aspiranti bibliotecari che giorno dopo giorno lavorano con le parole, la parola è centrale com’è stata per la Riforma protestante che ha tradotto le scritture e insegnato le persone a leggere. Com’è anche fondamentale per una filosofia che dice che le cose esistono nella misura in cui siamo in grado di nominarle e che la realtà di cui facciamo parte è innanzitutto linguistica.

         Sebbene il testo non lo espliciti, anche tale visione della realtà ha un lato oscuro, di cui l’intellettuale o il principe che sta nella propria torre d’avorio è un po’ il simbolo. Immagine di colui che rimane distante dalla materialità dell’esistenza, isolato dalle sue gioie e dalle sue pene. Una cosa è vedere sullo schermo ogni sera lo svolgersi della guerra in Ucraina – come se fosse una fiction, una storia ad episodi da seguire, un’altra cosa è stare sotto le macerie causate dalle bombe con la puzza di morte tutto intorno.

Non è un caso che cito la guerra (ricordiamo l’esempio del centurione romano), perché vorrei ricordare la guerra nel golfo del 1991. Fu la prima guerra combattuta anche a distanza e trasmessa in diretta. Molti dei vari missili che cadevano sull’Iraq erano teleguidati da piloti americani seduti comodamente in qualche posto lontano dalla battaglia.  Dallo schermo del computer seguivano il tracciato delle cosiddette bombe smart. Guardavano dallo schermo le persone e gli edifici da distruggere. Questa guerra, condotta come se fosse un tipo di video gioco, fu poi trasmessa sugli schermi di tutto il mondo come se fosse uno spettacolo pirotecnico. Questo miscuglio, tra armi teleguidate a distanza da una parte, e il risultante spettacolo trasmesso in televisione, dall’altra, ha fatto si che un filosofo francese dichiarasse “La guerra nel golfo non ha avuto luogo” La guerra nel golfo ha avuto luogo o si è trattato di qualche simulazione nello spazio?

         Per rispondere a quella domanda bisogna cambiare prospettiva e adottare quella del secondo racconto del creato che ci fa uscire dai nostri schermi e toccare con mano la polvere della terra e contare i cadaveri, che ammontavano almeno a centoventimila morti dalla sola parte irachena. In altre parole, vorrei suggerirvi che il  racconto di un Dio che crea l’umano dal fango, del Dio artigiano che modella la creatura di terra sia un antidoto ai possibili eccessi del primo racconto. Il racconto più antico serve a correggere il tiro a quello più recente.  Byung Chul Han, filosofo coreano ritiene, per esempio, che nell’epoca digitale stiamo pian piano perdendo l’uso della mano. Mentre conserviamo l’uso delle dita, perché servono per toccare lo schermo scivolandoci sopra, le nostre mani si atrofizzano, sono sempre meno in grado di modellare, fabbricare, creare le cose. Eppure basta osservare un bambino o una bambina piccola che gioca per comprendere che noi usiamo le mani per afferrare il reale a meno che in quelle manine non mettiamo subito un tablet. (Non farlo!)

 Che cosa sto dicendo? Che viviamo in un’epoca che sembra trasformare la realtà sempre di più in realtà virtuale. Certi dispositivi sono in grado di farci vivere un’esperienza del reale – una visita a un museo, una passeggiata in campagna, per esempio – senza muovere un passo fuori casa, comodamente dalla nostra poltrona, senza toccare con mano ciò che ci circonda, senza mai passeggiare in un posto chiaramente delineato da quattro fiumi.

E ironico che lo studio biblico al quale mi sono riferita all’inizio è stato condotto – a causa della pandemia- proprio via zoom, dallo schermo. La tecnologia ci ha permesso, quindi, di vederci, parlarci, scambiare pensieri e pregare. Ci ha permesso, insieme alla disponibilità di fratelli e sorelle in carne e ossa di mantenere il culto e l’annuncio della parola a distanza, anche durante il lock down. Molte chiese hanno scoperto come raggiungere persone altrimenti distanti, persone che non hanno mai varcato la soglia di un locale di culto. Ed alcune persone, bisogna dirlo, hanno scoperto come mi è stato detto “ma è molto più comodo seguire il culto dal sofà”.

         Oggi ho voluto suggerirvi che dietro la scelta di usare la tecnologia digitale ci sono questioni filosofiche e teologiche di importanza fondamentale. Così importanti che le scritture mettono due diverse visioni del mondo, dell’umano e di Dio l’una accanto all’altra. Non ci chiede di scegliere una a scapito dell’altra ma di tenerle unite. A me sembra che il racconto più antico, posto in seguito a quello più recente sia un sano correttivo alle derive del primo. È nel mondo del secondo racconto, che la parola del vangelo va annunciata, ricevuta a vissuta. A meno che non si è impossibilitati, il vangelo non va vissuto dal sofà ma nel mondo faticoso delle relazioni, radicato in aree geografiche ben precise, sporcandosi le mani con la polvere della terra, piantando e coltivando giardini, abbracciandosi gli uni gli altri e assumendo le nostre responsabilità in un mondo di tensioni e difficoltà. Compito della chiesa è tenere insieme distanza e presenza, la parola annunciata dall’alto insieme alla mano che si immerge nella polvere della terra per formare  ciò che è veramente umano.


Elizabeth Green

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