Cagliari e Sulcis Iglesiente
Ciò che siamo chiamati a fare
26 giugno 2022
di ELIZABETH GREEN
Lungo tutti i vangeli vediamo un Gesù che, facendo avere qualcosa a qualcuno dona, insieme alla guarigione e alla liberazione, al perdono e all’amore, al cibo e al riposo, anche sé stesso, la sua presenza, la sua forza, il suo amore, la sua attenzione, la sua vitalità, la sua onestà, la sua integrità. Gesù si spende in ogni azione che compie. Trasmette qualcosa di sé
41 Sedutosi di fronte alla cassa delle offerte, Gesù guardava come la gente metteva denaro nella cassa; molti ricchi ne mettevano assai. 42 Venuta una povera vedova, vi mise due spiccioli che fanno un quarto di soldo. 43 Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico che questa povera vedova ha messo nella cassa delle offerte più di tutti gli altri: 44 poiché tutti vi hanno gettato del loro superfluo, ma lei, nella sua povertà, vi ha messo tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere».
Mc 12, 41-44
15 Uno degli invitati, udite queste cose, gli disse: «Beato chi mangerà pane nel regno di Dio!» 16 Gesù gli disse: «Un uomo preparò una gran cena e invitò molti; 17 e all’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: “Venite, perché tutto è già pronto”. 18 Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: “Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi”. 19 Un altro disse: “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi”. 20 Un altro disse: “Ho preso moglie, e perciò non posso venire”. 21 Il servo tornò e riferì queste cose al suo signore. Allora il padrone di casa si adirò e disse al suo servo: “Va’ presto per le piazze e per le vie della città, e conduci qua poveri, storpi, ciechi e zoppi”. 22 Poi il servo disse: “Signore, si è fatto come hai comandato e c’è ancora posto”. 23 Il signore disse al servo: “Va’ fuori per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, affinché la mia casa sia piena. 24 Perché io vi dico che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati, assaggerà la mia cena”».
Luca 14,15-24
“Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date” dice Gesù inviando i suoi seguaci nel mondo. E in un’altra occasione, “Date e vi sarà dato”. Non c’è dubbio che il verbo “dare” descriva un’azione centrale alla vita del credente. E sappiamo tutti cosa significa la parola “dare” – “fare in modo che uno abbia qualcosa”. “Passare” qualcosa a qualcun altro. Se diciamo, invece, “donare” stiamo facendo la stessa cosa però con spontaneità e liberalità. Ma in che cosa consiste il “dare” al quale siamo chiamati? Il dare di cui parla il vangelo ha qualcosa di specifico? Cominciamo la nostra esplorazione esaminando l’episodio della povera vedova.
Siamo nel tempio di Gerusalemme e, seduti davanti alla cassa delle offerte, Gesù ci fa notare due tipi di donatori, delle persone molto ricche, da una parte, e una povera vedova, dall’altra. I due gruppi di persone fanno esattamente la stessa cosa. Fanno sicché qualcuno – in questo caso la cassa del tempio – abbia qualcosa. L’azione delle due tipologie di persone viene descritta usando esattamente le stesse parole. Visto dall’esterno, non c’è nessuna differenza in ciò che fanno i ricchi, da una parte, e la povera vedova, dall’altra. Ambedue danno, mettendo o gettando dei soldi nella cassa delle offerte. Non c’è niente di straordinario in questa azione, e qualcosa che anche noi facciamo ogni domenica. Tuttavia, sebbene le loro azioni siano esattamente uguali, Gesù vuole che i discepoli riflettano sul diverso significato del loro gesto.
E’ vero, spiega, che i ricchi hanno donato una somma enorme di soldi, ma non quanto la povera vedova. Com’è possibile se lei ha gettato solo due spiccioli nella cassa delle offerte? La differenza, dice Gesù, sta nel fatto che i ricchi hanno dato del loro superfluo. In altre parole, la loro generosità non li tocca da vicino. Ha poco o nessun impatto sulla loro vita. Questi uomini rimangono distaccati, distanti dall’azione del dare. Detto diversamente, l’azione che stanno compiendo non li implica in prima persona.
Il caso della povera vedova, invece, è del tutto diverso perché lei, gettando due spiccioli “vi ha messo tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere”. Letteralmente il testo dice “tutta la sua vita”. È una frase bellissima. La donna non ha solo dato la sua offerta ma ha dato la sua vita. Meglio, facendo la sua offerta ha dato sé stessa. Il suo dono la coinvolge fino in fondo.
Questo episodio ci aiuta a capire cosa vuole dire – per il vangelo – “dare”, ovvero il dare al quale – come discepoli e discepole di Cristo – siamo chiamati. Non è un caso che la spiegazione dei due modi del dare – il superfluo, da una parte, e l’essenziale, dall’altra, concluda l’attività pubblica di Gesù nel tempio. Da lì a poco Gesù stesso sarà dato in mano agli uomini. Due spiccioli gettati nella cassa delle offerte. L’episodio della povera vedova ci offre una chiave di lettura per comprendere il senso degli ultimi giorni di Gesù.
Lungo tutti i vangeli vediamo un Gesù che, facendo avere qualcosa a qualcuno dona, insieme alla guarigione e alla liberazione, al perdono e all’amore, al cibo e al riposo, anche sé stesso, la sua presenza, la sua forza, il suo amore, la sua attenzione, la sua vitalità, la sua onestà, la sua integrità. Gesù si spende in ogni azione che compie. Trasmette qualcosa di sé.
Che la sua vita sia caratterizzata dal dare è esattamente ciò che confessiamo quando celebriamo la cena del Signore. Spezzando il pane, ripetiamo le sue parole, “il pane che io darò è la mia carne” “questo il mio corpo dato per voi”.
Gesù – dichiarandosi il buon pastore – contrasta il suo modo di agire con quello del mercenario. Quest’ultimo viene pagato per guardare le pecore ma non è affatto un pastore. “Il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario abbandona le pecore e si dà alla fuga” (Gv 10,11) Mentre il buon pastore svolge il suo compito fin in fondo, dando addirittura se stesso pur di salvare le pecore, il mercenario guarda le pecore solo mentre gli è comodo e quando vede arrivare il pericolo, ovvero un lupo, che gli chiederebbe un impegno maggiore, non pensa due volte a mollare il gregge e separarsene definitivamente.
Cominciamo a vedere, quindi, che il dare di cui parla il vangelo ci tocca da vicino. Ha a che fare non tanto con ciò che abbiamo e dal quale possiamo separarci facilmente ma con ciò che siamo, la nostra stessa vita. In altre parole, ci implica in prima persona. Ripetutamente le scritture descrivono l’opera di Gesù in termini del dono, del darsi. Egli è colui che “ha dato sé stesso per i nostri peccati” (Gal 1,4), oppure “camminate nell’amore come anche Cristo ci ha amati e ha dato sé stesso per noi” (Ef 5,2). Si arriva persino a dire che “ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti” (1Tim 2,6). Esattamente come la vedova, egli ha offerto la propria vita.
Nelle scritture non c’è un linguaggio sacro e un altro profano. Perciò l’apostolo Paolo non ha alcun problema a parlare del dono che Cristo ha fatto di sé stesso nel contesto dell’offerta speciale che sta raccogliendo tra le chiese per aiutare coloro che sono stati colpiti dalla carestia in Giudea. Mette insieme l’offerta di Cristo con le offerte che raccogliamo noi, il dono effettuato da Gesù con i doni che siamo invitati a fare noi. Così per incoraggiare i corinzi a contribuire generosamente a questa raccolta speciale scrive “Voi conosceste la grazia del nostro Signore Gesù Cristo il quale, essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché mediante la sua povertà, voi poteste diventare ricchi” (2 Cor 8,9).
Ma a colpirci maggiormente sono le parole che dedica alle chiese della Macedonia che “hanno dato volentieri, secondo i loro mezzi, anzi, oltre i loro mezzi, chiedendoci con molta insistenza di partecipare alla sovvenzione destinata ai santi”. E poi aggiunge “E non soltanto hanno contribuito come noi speravamo, ma prima hanno dato loro stessi al Signore, e poi a noi, per la volontà di Dio” (2 Cor 8,5). Vedete, pur parlando di soldi, del “fare aver qualcosa a qualcuno”, Paolo non parla in termini di economia e di finanze bensì di teologia. Ci dimostra che la straordinaria generosità delle chiese macedoni, come quella della vedova, nasce da una disposizione interiore. “E non soltanto hanno contribuito come noi speravamo, ma prima hanno dato loro stessi al Signore, e poi a noi, per la volontà di Dio” dando loro stessi prima a Dio sono pronti a darsi gli uni agli altri. Insieme alle loro offerte danno la propria vita.
Non si può certo dire che la chiesa di Cagliari non sia una chiesa generosa, sempre pronta a rispondere alle raccolte speciali di fondi. Sostenitore di vari progetti nello Zimbabwe. Ma, e questa è la domanda che mi/vi faccio, come diamo? Diamo come i ricchi che davano del loro superfluo o come la vedova che dava – insieme a quei due spicci – sé stessa? Il nostro dare nasce da quella disposizione di fondo che caratterizzava i macedoni che “avevano dato prima se stessi a Dio” oppure è frutto del calcolo a breve termine del mercenario? E una domanda scomoda, me ne rendo conto, ma le scritture ci mostrano – paradossalmente – che l’atto del dare può permetterci di “fare avere qualcosa a qualcuno” senza lasciarci toccare minimamente da quel dono. Anzi, il dare può diventare un modo per trattenerci, ovvero per tenere ben stretto ciò di più prezioso che abbiamo, ovvero noi stessi.
Questa possibilità ci viene mostrato dalla parabola del gran convito. L’uomo della parabola ha deciso di dare una cena. Vuole offrire ad altri non solo del buon cibo ma anche un’occasione di grande socialità intorno al tavolo bandito. Possiamo immaginare bene i preparativi. Pensa al menù, ingaggia i cuochi, fa comperare gli ingredienti, cerca il vino migliore e manda in giro i suoi servi con gli inviti. È un gesto di grande generosità. Vuole dare ai suoi ospiti un giorno, una serata di comunione e di condivisione. E non chiede niente in cambio. Non c’è da fare l’offerta, non c’è da comperare il biglietto, non c’è da saldare il conto. È una cena data gratuitamente. C’è solo una cosa che bisogna fare: accettare l’invito e al momento giusto recarsi alla festa. In fondo, cosa sta chiedendo l’oste agli invitati? – che siano disponibili, che diano la loro presenza, che dedichino tempo ed energia a questo evento. In altre parole, sta chiedendo la cosa più preziosa che ognuno e ognuna di noi ha, il tempo della nostra vita.
È incredibile che il suo invito non desti l’entusiasmo delle persone interpellate. Oppure ognuno ha già accettato ma quando arriva al dunque, quando il servo dice agli invitati “venite, perché tutto è già pronto”, ognuno ha qualcos’altro da fare. “Tutti insieme cominciarono a scusarsi”. Vedete che le scuse che vengono accampate non hanno niente di urgente, non sono degli imprevisti che possono capitare: andare a vedere un campo appena comperato, provare i buoi appena comperati o stare con una moglie appena sposata sono tutte cose che possono aspettare. Il campo, i buoi e presumibilmente anche la moglie non scappano. Eppure, per l’invito a cena nessuno è disponibile. Col loro rifiuto che cosa stanno dicendo all’uomo che aveva preparato la cena? Che non ho tempo per te. Che non intendo donare a te e alla tua cena queste ore della mia vita. Che ho altre cose da fare che per me sono più importanti. Ed è così ogni volta che rifiutiamo un invito a qualcosa, a fare qualcosa. Stiamo negando all’altro/a, noi stessi/e. Gli invitati sono messi alle strette, non possono sostituire sé stessi con un dono perché l’uomo non gli ha chiesto niente. Ha solo chiesto che fossero, li ha solo invitati ad esserci. Ma a questo non sono disponibili, e gli pregano di scusarsi.
Perciò il padrone che non è affatto contento, (“Io vi dico che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena”) manda i servi “per le piazze e per le vie della città e conduci qua proprio le persone per le quali Gesù era venuto, i poveri, storpi, ciechi e zoppi”, persone che con gioia e gratitudine sono pronte a rispondere al dono col dono, esattamente come la povera vedova. Non avendo niente non potevano comperare campi e buoi da occupare il loro tempo. Erano pronti a dedicare tempo ed energia alla cena, erano pronti ad accettare il suo invito, erano pronti a portare la cosa più preziosa che avevano, loro stessi.
Verso la fine dell’Ottocento Cristina Rossetti scrisse una poesia sulla nascita di Cristo che poi è diventato un canto natalizio. Descrive la scena del Natale come la cristianità l’ha immaginato per secoli: di fronte al bambino nella mangiatoia s’inchinano gli angeli, il bue e l’asinello e il cammello adorano. Poi si chiede, «Cosa posso dare io a Lui, povera come sono?
Se fossi stata un pastore, gli avrei portato un agnello/fossi stata un Re Magio, avrei fatto la mia parte/ecco cosa posso donare a Lui: il mio cuore» (ovviamente in inglese “part” e “heart” fanno rima) In altre parole, l’unica cosa che veramente possiamo dare, è noi stessi. Spiegando la differenza tra il dare dei ricchi, da una parte, e della povera vedova, dall’altra, Gesù ci insegna che l’atto del dare può dissimulare il non darsi, diventare un modo per trattenere o negare all’altro la cosa più preziosa che abbiamo, la nostra stessa vita. Per il vangelo, dunque, ciò che definisce il dare tout court, è dare – insieme al dono – il nostro cuore, ovvero noi stessi.
Gratuitamente avete ricevuto da me e gratuitamente darai. Il vangelo ci invita a rispondere al Gesù che si è speso fino in fondo, dando la sua vita per noi col semplice dono di noi stessi. Davanti al suo invito non c’è scusa che tenga. Possa la chiesa di Cagliari diventare una comunità che non si risparmia ma nella quale ogni suo componente si rende disponibile, dandosi prima a Dio e poi gli uni agli altri.
Elizabeth Green