La Bibbia ucciderà la Chiesa? Cosa ne facciamo dei nostri luoghi?

3 luglio 2022

di STEFANO MELONI


Il luogo del tempio dello Spirito siamo noi, noi che cerchiamo faticosamente di comprendere la Parola del Signore, che proviamo a tirarla fuori da queste righe, a farla nostra, e osiamo, pur balbettando, comunicarla al nostro prossimo.


Cominciamo il sermone di stamattina facendo un passo indietro nella storia. Siamo nel XVI secolo.

La nostra scena si svolge nella famosa cattedrale Notre Dame de Paris. Cattedrale raccontata da molti romanzieri, la cui costruzione è iniziata intorno all’anno 1100 d.C. Costruita su un’isola in mezzo alla Senna, era stata edificata nello stile chiamato romanico, in voga in quel tempo in tutta l’Europa Occidentale, ma poi modificata secondo un movimento architettonico nuovo ed entusiasmante, il gotico, nel quale si sperimentava tutta una serie di soluzioni ardite (i muri di pietra più sottili, i pilastri più slanciati, gli spazi con cappelle distribuite a raggiera, gli archi a sesto acuto più appuntiti, le finestre multicolori), soluzioni veramente straordinarie.

Ogni città importante voleva una cattedrale e c’era la rincorsa a chi la costruiva più maestosa e più grande e più slanciata verso il cielo. Per completare la nuova versione della basilica furono necessari quasi 100 anni e poi, in realtà, i lavori di costruzione e di manutenzione non sono mai terminati se pensiamo al recentissimo incendio di tre anni fa, con i lavori avviati immediatamente grazie a raccolte consistenti di fondi in tutto il mondo, a significare quanto sia importante avere in piedi questo monumento della cristianità di valore storico, architettonico e simbolico.

Nel celeberrimo romanzo di Victor Hugo terminato nel 1831, si racconta la storia della bella Esmeralda, del capitano Phoebus innamorato di lei e corrisposto, di Quasimodo il campanaro deforme adottato a 4 mesi dall’Arcidiacono della cattedrale, Claude Frollo, un sacerdote erudito dedito alla teologia, al diritto canonico e all’alchimia, che si innamora in tarda età della giovane zingara e determina tutta una serie di situazioni drammatiche.

Ai fini della nostra riflessione di stamattina, però, a noi interessa un passaggio del V capitolo del libro, dove l’arcidiacono discute animatamente con un amico sulla situazione della chiesa che governa, ha in mano una bibbia e sta guardando fuori dalla finestra del suo studio l’ardita costruzione di Notre Dame.

Preoccupato, formula questa frase:   

Cecì tuerà celà: questa ucciderà quella.

L’arcidiacono aveva una visione, una premonizione: la Bibbia di carta stava per uccidere la Bibbia di pietra.

L’alto prelato, dice Hugo, manifestava due timori:

1. il primo era che la stampa a caratteri mobili, inventata da Gutenbergh[1] e la traduzione in lingua volgare del testo biblico fatta da Lutero, avrebbero minato dalle fondamenta la costruzione millenaria che la Chiesa aveva eretto e che era rappresentata efficacemente per mezzo della pietra, degli archi, delle costruzioni ardite, nelle cattedrali sparse qua e là nel mondo occidentale.

Era la paura di un prete, dice l’autore, che temeva l’impatto rivoluzionario e devastante della diffusione della Bibbia tra il popolo, della possibilità di leggerla e interpretarla senza mediazione, era il timore che il potere elitario, clericale, istituzionale, potesse venir meno. E di tutto ciò, Gutenbergh e Lutero erano i maggiori responsabili.

Martin Lutero per tradurre la bibbia dal Latino aveva praticamente inventato una lingua intermedia tra quella aulica, colta, raffinata della corte clericale e quella colorita del popolo, realizzando una mediazione linguistica unificatrice che generò praticamente il tedesco moderno.

La perfetta comprensibilità del testo determinò il successo e la diffusione del messaggio biblico (nel 1522 il Nuovo testamento e poi 12 anni dopo anche l’Antico).

Ma ad uno sguardo più approfondito era possibile un’altra lettura. In quella frase non c’era solo lo scontro fra Chiesa e popolo, tra potere ecclesiastico e cristianesimo radicale, tra mediazione sacerdotale e “sola scriptura”: quella frase rappresentava sinteticamente uno scontro epocale fra tecnologie.

Nella storia del mondo, gli esseri umani si erano serviti di diversi strumenti, di differenti supporti, per conservare la memoria degli eventi, dei concetti, delle idee, che l’uomo aveva voluto tramandare di generazione in generazione[2], .. quando la memoria delle prime razze si sentì sovraccarica, quando il bagaglio di ricordi del genere umano divenne così pesante e così confuso che la parola nuda e instabile, rischiò di perderne memoria lungo il cammino, si pensò di iscriverli nel suolo nel modo più duraturo e nello stesso tempo più naturale. Ogni tradizione venne suggellata con un monumento.

E così avanti, passando dalla parola trasmessa, al segno, al simbolo, alla scrittura, e dagli oggetti alle rappresentazioni sui muri, e poi i muri e le grandi costruzioni, dove fermare per sempre la raffigurazione della realtà. Dice ancora Hugo,

Il tempio di Salomone, per esempio, non era semplicemente la rilegatura del libro santo, la Torah, la Legge ebraica, era lui stesso il libro. Su ognuna delle sue cinte concentriche, i sacerdoti potevano leggere il verbo tradotto e reso manifesto allo sguardo, e ne seguivano così le trasformazioni di santuario in santuario fino ad impadronirsene nell’ultimo tabernacolo sotto la sua forma più concreta che era anch’essa un’architettura: l’arca del Patto tra Dio e il popolo di Israele.

Così l’architettura, dalle origini al secolo XV dell’era cristiana, è il gran libro dell’umanità.

Per questo, così, durante i primi seimila anni del mondo, l’architettura era stata la grande scrittura del genere umano, e per la cristianità, il luogo e la forma per esprimere il pensiero, per affermare la verità, per dire Dio. Ecco la Bibbia di pietra.

Nel XV secolo tutto cambia.

Tutto questo poteva essere messo in discussione da un libro? Incredibile, il libro stava per uccidere l’edificio.

Mentre la facciata della cattedrale aveva resistito alle intemperie, al vento, alla pioggia, ora, pericolosamente, il vento avrebbe trasportato quei fogli. E tutto ciò non sarebbe stato più controllabile. Ancora Hugo, in un bellissimo passaggio:

Sotto forma di stampa, il pensiero è più duraturo che mai: è volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si fonde con l’aria. Mentre all’epoca dell’architettura il pensiero si faceva montagna e s’impadroniva prepotentemente di un secolo e di un luogo, ora si fa stormo di uccelli, si sparge ai quattro venti, occupa nello stesso tempo tutti i punti dell’aria e dello spazio.

Come meravigliarsi che la mente umana abbia abbandonato l’architettura per la stampa?

I luoghi generano identità? Che ne facciamo?

Se volessimo applicare questa riflessione alla nostra piccola storia di chiese protestanti in Italia, se volessimo chiederci che ruolo e che peso hanno avuto le nostre costruzioni, i nostri templi, i nostri centri, nella nostra storia di comunità e popolo di credenti ancorati con forza al valore della scrittura, quali considerazioni potremmo fare? Che importanza hanno avuto e hanno per noi i luoghi della nostra esperienza di fede?

Per chi è cresciuto nella diaspora evangelica italiana, è un’esperienza molto forte, quasi eccitante, trovarsi nei luoghi fisici delle valli valdesi, dai quali traspira un senso di appartenenza, di storia, rappresentata e conservata, in quei templi, in quelle montagne, in quelle pietre. Una storia tramandata e ancora oggi raccontata nei luoghi dove si respira un’aria protestante. Trovate qualcuno, per esempio, che legge il settimanale Riforma, seduto su una panchina della piazza di Torre Pellice.

E noi battisti italiani? E noi battisti della Sardegna?

Abbiamo anche noi l’esigenza di fissare in modo duraturo e su pietra il nostro esserci stati, essere esistiti? Se non abbiamo luoghi identitari, non rischiamo di essere troppo “leggeri”, “volatili”, “indeterminati”, pronti a essere dimenticati troppo facilmente?

Potremmo forse raccontare del Campo Sardegna, o dei numerosi locali di culto dove ci siamo riuniti dal 1877 a oggi, o del tempio mai costruito nel secondo dopoguerra.

Ecco ciò che doveva essere il tempio evangelico di Via Tigellio

Sul finire degli anni ’30, a Cagliari, il pastore Carmelo Inguanti lancia la sottoscrizione per la costruzione del nuovo tempio battista in città. La comunità, nei primi sessanta anni di vita, aveva occupato alcuni modesti locali[3], e desiderava affermare la sua presenza per mezzo di un tempio adeguato. La raccolta dei fondi continuò negli anni e riprese, con nuovo vigore, nel primissimo dopoguerra grazie anche ai contributi monetari dei militari americani di fede evangelica presenti in città dal 1943[4]. Fu finalmente definito un progetto e si ebbe una approvazione dell’ufficio tecnico comunale datata 30 aprile 1945. I soldi, naturalmente, non bastavano ancora, ma la voce si sparse in città e nella regione sarda. Alcuni mesi dopo, precisamente il 13 agosto di quell’anno, in una pubblicazione edita a Sassari[5] , l’archeologo sardo più famoso, Giovanni Lilliu, in un suo articolo titolato “Divagazioni sull’urbanistica cagliaritana”, dove descriveva lo stato desolante in cui si trovava il capoluogo dopo le devastazioni belliche, scrisse così:

ma l’ampia finestra naturale sul mare che vedesi dal Buon Cammino[6]  sembra destinata ad essere murata se, come corre voce, in una parte imprecisata dell’area dovrà sorgere, secondo un progetto già approvato dalla Commissione Edilizia, una Chiesa di rito non cattolico. L’uomo della strada, a cui di solito si nasconde ogni determinazione superiore ma non si può togliere l’uso del giudizio, si domanda quale opportunità muova la costruzione del nuovo edificio in una parte della città che un gusto indica tutt’altro che adatta ad accogliere una fabbrica tanto diversa così dal paesaggio architettonico circostante come dall’aspetto dell’edilizia cittadina in generale. E aggiunge la considerazione che la solitaria ed anacronistica linea d’un aguzzo e agghindato prospetto gotico tipicamente nordico (contrastante sia con i piani coronamenti delle moderne fabbriche sia collo stesso misurato e succinto profilo degli edifici gotico-catalani di Cagliari) altro non produrrà che una nuova artificiosa e nociva inserzione esotica nel già tanto frammentario eclettismo formale dell’architettura del declinante ottocento e del primo trentennio dell’attuale secolo nella capitale sarda.

Due considerazioni si possono fare.

Dal punto di vista architettonico, la linea tanto decantata che si vede oggi dal Buon Cammino, mischia tutte le differenti tipologie edilizie frutto della edificazione selvaggia negli ultimi decenni, e appare, questa si, artificiosa, posticcia e confusa (dito rosso in piazza Trento…).  

Ma la seconda considerazione solleva il dubbio che la critica “urbanistica” sia in realtà un modo mal riuscito di mascherare il fastidio di dare diritto di suolo, di stabilità, di edificio, infine di esistenza, all’espressione della fede diversa da quella maggioritaria cattolica, che si sarebbe manifestata duratura nel tempo (qui Hugo ha pienamente ragione) per mezzo di un locale di culto evangelico che avesse la forma di un tempio fatto di pietra.

Quel tempio significava che qualcosa di diverso, in termini di testimonianza, presenza, identità religiosa, aveva il diritto all’esistenza e lo rivendicava.

Quel tempio non fu mai costruito, e ci rimane soltanto quel progetto approvato e quei disegni conservati nei nostri archivi.

Dieci anni dopo, il locale di culto della Chiesa Battista di Cagliari, ebbe la luce nel maggio 1955, in tutt’altra forma e in un’altra zona della città. Con una dimensione certamente meno invasiva e appariscente, quasi nascosta, dentro un palazzo, dietro un cancello, ma è comunque il segno che quel diritto ad esistere delle fedi diverse dalla cattolica ha trovato luogo e forma per essere affermato. 

In conclusione, però, se la chiesa di pietra resta, se le mura sono qualcosa di più stabile, guardando chi siamo, sono solo pochi i volti di noi presenti nelle foto di allora. Tutti gli altri e le altre non ci sono più. Ciò significa che se c’è un messaggio evangelico da comunicare, una buona notizia da trasmettere, da far conoscere, questo avviene se ci sono testimoni fedeli della Parola del Signore, oltre il tempio, dovunque esso sia costruito.

In un tempo in cui le ideologie sono scomparse e le religioni tradizionali sono in forte crisi, forse siamo proprio noi ad essere più leggeri su questa terra, a rischiare di passare oltre senza lasciare traccia significativa del nostro passaggio.

I luoghi possono aiutarci a non essere troppo in diaspora, e per questo Israele desidera fortemente tornare a Gerusalemme, al suo tempio. Ma quel tempio, dove il libro è scritto, sta lì. Questo tempio, spoglio di figure, quasi troppo vuoto, ci ricorda che non possiamo fermare la Parola del Signore su pietra, come abbiamo letto all’inizio:

L’Altissimo però non abita in edifici fatti da mano d’uomo, come dice il profeta:
49 “Il cielo è il mio trono, e la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi costruirete, dice il Signore, o quale sarà il luogo del mio riposo?
50 Non ha la mia mano creato tutte queste cose?”

Il messaggio di oggi è che il luogo del tempio dello Spirito siamo noi, noi che cerchiamo faticosamente di comprendere la Parola del Signore, che proviamo a tirarla fuori da queste righe, a farla nostra, e osiamo, pur balbettando, comunicarla al nostro prossimo.


Stefano Meloni


[1] E’ del 1455 la prima versione a stampa della Bibbia in latino

[2] Il brano è tratto da Notre-Dame de Paris, Victor Hugo, 2003, L’Espresso spa, Roma, p. 210 e ss

[3] Non si conosce, allo stato delle ricerche, dove si trovassero il past. Angelo Cossu e i primi 6 battezzati il 10/5/1877, giorno dei battesimi e della fondazione della Chiesa Battista di Cagliari. Si parla di un locale in Via Sassari, ma non esistono documenti che lo attestino. Successivamente la comunità si riunì in Piazza Yenne, 6, come afferma la Guida Di Cagliari di Francesco Corona del 1894, nel Corso Vittorio Emanuele, come riporta il Testimonio, mensile battista, dal 1930, per poi trasferirsi nella attuale sede di Viale R. Margherita, 54 nel maggio 1955.

[4] Ancora il mensile Il Testimonio, riporta dettagliatamente come procedeva la raccolta fondi, ma esistono anche documenti nell’archivio della chiesa di Cagliari comprendenti ricevute e elenchi nominativi.

[5] Si tratta del giornale Riscossa, settimanale politico, letterario e di informazioni, edito a Sassari, anno II, il 13/8/1945, di cui in archivio è conservata una copia originale.

[6] una splendida passeggiata su uno dei sette colli cagliaritani. nda

Vuoi condividere questa pagina?

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *