Cagliari e Sulcis Iglesiente
La lingua
27 febbraio 2022
di ELIZABETH GREEN
Perché l’essere pacifici, miti, concilianti, pieni di misericordia e buoni frutti e così importante? Perché è l’unico modo di scongiurare ciò che ha sempre afflitto le chiese, le famiglie e la comunità umana in generale ossia “l’invidia e la contesa, il disordine e ogni cattiva azione”
La saggezza che viene dall’alto anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia.
Giacomo 3, 17
Quasi duemila anni ci separano dalle prime comunità cristiane che hanno diffuso un vangelo che attraversando il tempo e lo spazio è arrivato fino a noi. È bello ricordare, come Stefano ha fatto nel suo articolo, le persone e gli eventi del passato che hanno reso possibile il nostro presente. La consapevolezza della propria storia – la cura degli archivi del suo patrimonio di libri – è uno dei pregi della chiesa di Cagliari. Ma com’erano quelle prime comunità cristiane? Se una sorella della chiesa delle origini dovesse trovarsi catapultata dalla Gerusalemme del primo secolo alla Cagliari del ventunesimo, come si troverebbe? che cosa riconoscerebbe del nostro essere chiesa? Se Pietro o Giacomo, Prisca o Aquila dovessero farci visita si troverebbero al loro agio in mezzo a noi?
Secondo la ricostruzione di Luca nel libro degli Atti, la prima comunità cristiana, nata a Gerusalemme il giorno della Pentecoste era un luogo idillico, “Andavano assidui e concordi nel tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore lodando Dio e godendo del favore di tutto il popolo”. Realtà così attraente che molti ne volevano fare parte, così leggiamo “Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati”.
Tale quadro di perfetta pace non è destinato a durare. Basta girare qualche pagina fino al sesto capitolo e troviamo il primo (anzi il secondo) dissidio all’interno della comunità, “sorse un mormorio da parte degli ellenisti contro gli Ebrei”. Ecco, ci siamo, le tensioni interne tra gruppi diversi cominciano a farsi sentire. Infatti, se guardiamo la corrispondenza che gli apostoli tenevano con le giovani chiese scopriamo che avevano due ordini di problemi. Il primo aveva a che fare con il modo in cui i primi cristiani dovevano comportarsi verso l’esterno, ovvero verso il mondo giudaico da una parte, e il mondo pagano dall’altro. Il secondo, invece, riguardava come comportarsi – come direbbe Paolo – con “quelli di dentro”, ovvero come curare le relazioni all’interno della comunità.
Nelle lettere che Paolo e altri apostoli scrivono, i primi cristiani donne e uomini vengono esortati ad aver un medesimo sentimento, ad essere coesi e uniti. Senza una tale coesione interna le comunità non avevano nessuna possibilità di rimanere in piedi e il vangelo non si sarebbe mai diffuso.
Anche Giacomo, scrivendo a partire da quel giudaismo che aveva riconosciuto in Gesù il messia, è dello stesso parere. Nel capitolo che abbiamo letto dà dei consigli pratici e preziosi per la vita della chiesa sia allora che ora. Chi sta seguendo lo studio biblico avrà riconosciuto che il pensiero di Giacomo affonda le sue radici nella tradizione sapienziale di Israele. Pensiero fortemente interessato all’aspetto pratico della nostra vita, come ci conduciamo, come stiamo nel mondo, il nostro stile di vita. E se leggiamo il v. 13 l’insegnamento è chiaro: “Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza”. Sappiamo tutti e tutte che siamo chiamati a fare le buone opere, a darci da fare per il prossimo, ma Giacomo ci dice che ciò che conta è il modo in cui le facciamo, e per spiegarlo riscatta una parola che è andato fuori uso, parola per la quale la società dell’apparenza non ha tempo, ovvero “mansuetudine”. Non dobbiamo considerarci né migliore né peggiore degli altri, ma avere -come scrive altrove l’apostolo Paolo – un concetto sobrio di sé. Sicuri ma non altezzosi, umili ma non ossequiosi.
Poco dopo Giacomo ci regala un versetto che spiega ancora meglio quello che vuole dire “La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura, poi pacifica, mite, conciliante piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia”. Ecco un elenco delle qualità che le sorelle e i fratelli della chiesa, qualsiasi chiesa in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo, sono chiamati a coltivare. Qui abbiamo un modello al quale aspirare. Come abbiamo detto, non sono qualità che il mondo in cui viviamo premia, anzi spesso come mostra su larga scala la guerra in Ucraina, mancano del tutto. Tuttavia, se noi le avessimo, se noi le coltivassimo, se noi ci comportassimo così, sicuramente godremmo del favore tutto il popolo e il Signore aggiungerebbe ogni giorno anche alla nostra comunità quelli che vengono salvati.
Perché l’essere pacifici, miti, concilianti, pieni di misericordia e buoni frutti e così importante? Perché è l’unico modo di scongiurare ciò che ha sempre afflitto le chiese, le famiglie e la comunità umana in generale ossia “l’invidia e la contesa, il disordine e ogni cattiva azione”. Laddove l’invidia e la contesa dominano – una chiesa locale, una famiglia, un paese – tale realtà è destinato a dividersi e disgregarsi, “Questo non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica” scrive Giacomo.
Infatti, la parola diabolica vuole dire parola che divide, che crea divisioni, che rende impossibile prima la convivenza e poi la sopravvivenza della chiesa. Da dove viene tale spirito? “E’ quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo – diceva Gesù – perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini che escono cattivi pensieri, malvagità, calunnie, sguardo maligno e via dicendo”. E Giacomo concorda, “Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità” In una parola state zitti affinché non abbiate risolto il vostro conflitto interiore!
Un consiglio estremamente saggio se lo consideriamo alla luce della prima parte del capitolo dove Giacomo mette le dita nella piaga. Come esce dal cuore ciò che ci contamina, spesso e volentieri, nolenti o volenti? Esce dalla bocca, esce in ciò che diciamo, nel modo in cui lo diciamo. “Se uno non sbaglia nel parlare è un uomo perfetto, capace di tenere a bada tutto il corpo”. Ma siamo capaci di non sbagliare nel parlare? Chi scrive ne è scettico, abbiamo imparato a domare tutto: le navi che guidiamo da un piccolo timone, ogni specie di bestie, uccelli, rettili e animali marini “ma la lingua nessun umano la può domare; è un male continuo, è pieno di veleno mortale”.
Con somma acutezza, Giacomo dice che il nostro modo di parlare manifesta la nostra natura divisa, la lingua stessa esprime la divisione e la contesa che, se non vengono guarite, se non si riconciliano, sono dentro ognuno e ognuna di noi. Perché con la lingua facciamo due cose del tutto opposte “benediciamo il Signore e Padre da una parte, e malediciamo gli uomini che sono fatti a somiglianza di Dio”. Veniamo riportati ai primi mesi della chiesa appena nata a Gerusalemme quando “sorse un mormorio da parte degli Ellenisti contro gli Ebrei”.
Ma se andassimo a visitare le chiese del primo secolo, non è l’unico mormorio che troveremmo, perché a Corinto si erano sviluppate delle fazioni intorno a Cefa, Apollo e gli altri, a Filippi troveremmo le due responsabili Evodia e Sintyche in difficoltà, mentre gli stessi apostoli Cefa, Barnaba, Giacomo e Paolo stanno per trascinare le chiese nella Galazia nelle loro contese e litigi. Persino la comunità di Roma doveva aver qualche problema perché Paolo le scrive “Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite. Abbiate tra d voi un medesimo sentimento. Non aspirate alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili. Non vi stimate saggi da voi stessi” (Rm 12,14s.), parole che combaciano perfettamente con l’insegnamento di Giacomo “Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza”
Una casa che è divisa non può rimanere in piedi, dice Gesù. Una chiesa che mormora, in cui c’è invidia e contesa non può sopravvivere, non attrae le persone ma le respinge. Perciò, scrive Giacomo, bisogna che impariamo a tenere a freno la lingua, ciò che contamina tutto il corpo. In altre parole, bisogna badare a che cosa diciamo e il modo in cui lo diciamo. È possibile che qualcuno o qualcuna si sia allontanato per una risposta che ho dato quando ero stanca e oppressa? Ho contribuito a creare un’atmosfera poco accogliente, esprimendo giudizi poco simpatici su altre persone? Mi sono offesa perché qualcuno o qualcuna mi ha risposto male? Ho contribuito a generare un mormorio tra persone diverse? Nessun umano può domare la lingua, dice Giacomo ed è attraverso la lingua che escono l’amara gelosia e spirito di contesa che abbiamo nel nostro cuore.
Le scritture, però, non ci lasciano soli con una diagnosi poco confortante, ma ci danno anche il rimedio. Ed è un rimedio che tutti e tutte possono prendere, una cura senza controindicazioni per nessuno/a. In fondo, questo brano dice che ognuno e ognuna di noi può fare la sua parte per rendere la comunità un luogo di pace, ognuno e ognuna di noi, esattamente come le persone di cui Stefano ha parlato nel suo articolo, può contribuire al bene comune della chiesa, alla costruzione di una comunità accogliente, e così assicurare la testimonianza che la chiesa continua a rendere in questo luogo.
Come? Cercando la saggezza che viene dall’alto. Ecco cosa scrive Giacomo all’inizio della lettera “Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare e gli sarà dato” (1,5). E al capitolo 4 scrive “sottomettevi dunque a Dio; ma resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed egli s’avvicinerà a noi”. Sì, se noi ci avviciniamo a Dio, Dio si avvicinerà a noi dandoci appunto la saggezza che viene dall’alto, “che è pura, poi pacifica, mite, conciliante piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia”. Perciò è importante vegliare su ciò che diciamo e sul modo in cui lo diciamo. Vegliamo lasciando che la saggezza che viene dall’alto faccia il suo lavoro nel nostro cuore. La chiesa, questa chiesa, ha bisogno di quella saggezza se vuole non solo sopravvivere in un mondo che non valorizza queste qualità, ma anche diventare un polo d’attrazione per quelli che, credendo in Cristo, vengono salvati. In modo che anche noi somigliamo alla prima chiesa a Gerusalemme che lodava Dio e godeva del favore di tutto il popolo. Amen.
Elizabeth Green